L’archivio coloniale nella fotografia dell’artista Délio Jasse

Di Alessia D’Introno

Nel suo studio Délio Jasse mostra il repertorio di immagini di epoca coloniale che colleziona come parte essenziale del suo lavoro. In questa intervista l’artista racconta il suo approccio alla fotografia e la partecipazione alla mostra collettiva Souvenir d’Italie presentata nella sezione OFF in occasione della Biennale d’Arte Africana Contemporanea di Dak’Art, in corso fino al 7 dicembre.

Dove nasce l’idea dell’archivio coloniale?

L’archivio nasce da come sono raccontate le storie nelle cartoline e nelle fotografie coloniali. Ad esempio, in una cartolina i bambini colonizzatori europei danno un calcio ai bambini neri re. Mi interessa molto l’archivio non ufficiale delle persone che hanno vissuto quel periodo. 

Dal repertorio di Délio Jasse

Racconta in questo modo la narrazione opposta che non è visibile?

Esatto. Non lavoro con gli scatti fatti sui neri, prodotti solo per vendere un tipo di immagine in Europa. Mi interessa fare vedere cosa c’era nelle case dei colonizzatori, cosa facevano, come posavano nelle fotografie, questa bolla che a nessuno interessava. Metto in evidenza al giorno d’oggi un altro tipo di souvenir, quasi un controverso, un parallelo. Anche se vale ancora la fotografia stereotipata oggi, sono attento a chi ha fotografato. Quello che vediamo nelle mostre, nei giornali e nei libri è parte di una pulizia dell’archivio, dove il prodotto da vendere arriva già tutto preparato e pronto da mangiare. Invece il mio compito è viaggiare e nuotare attraverso un archivio grezzo e non visibile. Non mi interessa creare delle fotografie o inventarle, il mio intervento è prendere l’originale e presentarlo, non eseguo una “pulizia” coloniale, perché deve avere un segno di quel passato.

Quindi chiede a chi ha vissuto quasi inconsciamente quel periodo che cosa è successo in realtà, attraverso la sua memoria familiare?

Un conto è raccontare una storia quasi inventata e riadattata, una storia bugiarda. Invece l’album privato, vernacolare, ti racconta con delle prove. Dietro si vede chi ha stampato e chi ha scattato. In tutte le colonie c’era un fotografo ufficiale, come scrive Masa Mengiste nel libro Il Re ombra. Il suo non è un punto di vista occidentale o di uno italiano come Angelo Del Bocca, che è comunque stato importante. Siamo abituati ad avere informazioni dalla parte di chi ha colonizzato, che dice la sua verità. Qui è una scrittrice nera dell’Eritrea a raccontare. 

Dal repertorio di Délio Jasse

In alcune fotografie che vedo in studio, i bambini europei vengono presentati sorridenti vicino agli animali appena uccisi o in posa accanto ad una macchina fotografica da far provare. I bambini neri invece sono rappresentati nudi, per terra come animali in cerca di cibo. La fotografia ha un ruolo di imbroglio in questo caso?

La manipolazione del colonialismo è soprattutto attraverso la fotografia. La ritroviamo nei ricordi e nelle scritte dietro le cartoline, ad esempio “facciamo conto di vedere le pantere se no che Africa è?”. I colonizzatori stanno guardando l’animale morto. La loro espressione era angelica diceva “non ho fatto niente”. In Italia c’è stata la negazione del passato, questa volontà di vedersi brava gente, quando invece ha utilizzato l’arma chimica. Ogni volta che non si conosceva si ammazzava.

Anche i nomi geografici, ad esempio nelle cartine italiane sulle ex colonie, sono nomi inventati, non si rifacevano a quelli già esistenti in Africa. Venivano prodotte le mappe dell’Eritrea, Etiopia e Somalia, inventando i colori. Chi disegna? Chi programma? Chi proietta? Che nome dai? 

Come si inserisce il suo lavoro all’interno di queste fotografie coloniali?

È un gioco. Io metto in scena lo spettatore con l’opera. Quello che succede è che si riconoscono alcuni oggetti, come la giacca simile a quella di una nonna, un lampadario, le macchine. Mi interessa pure l’architettura perché ti parla di un’epoca e si abbinano alle persone che l’hanno costruita o che scattano una fotografia lì. Come due amanti vicino ad una fontana che sembrano in Europa, invece sono in Africa perché quella fontana, quella architettura è stata tutta riprodotta per far vivere i colonizzatori. Creo questo legame tra ciò che si riconosce e il colonialismo. Molte cose sono identificabili perché l’Europa ha prodotto delle immagini fasciste simili tra loro. E quello che lo spettatore vede come simile a sé gli entra dentro e io vado a restituire proprio questo conforto dalla memoria personale a quella collettiva. 

Courtesy dell’artista Délio Jasse

Quindi, qual è la visione che cambia nei visitatori?

Il mio lavoro sta nel fare da specchio. Far accettare il passato affinché non torni, anche se vediamo oggi come continuano a saccheggiare l’Africa per le sue materie prime. Cosa succede quando parlo di questo? Quando dico “Hai visto cosa ha fatto l’Italia?”, si risponde sempre “Vabbè, non ha fatto niente, adesso c’è la Cina”. Sembra una partita di calcio, no? Allora dobbiamo lavorare sulla memoria collettiva, dobbiamo scoprire insieme certe cose. 

Questo atteggiamento l’ha rivisto molto nei visitatori durante la mostra Souvenir d’Italie?

C’era una spettatrice che mi ha chiesto “ma perché questo lavoro? Perché l’hai scelto?”. Io le ho detto schiettamente “hai visto questo spazio dove siamo noi adesso? È un’architettura coloniale, molto bella, ma una volta io o te come neri non potevamo stare qua, era impossibile. Se entravo era solo per pulire o per pitturare”. 

Mi chiedono spesso in generale come faccio a non arrabbiarmi guardando questi documenti e immagini. Io lavoro con tutto, ma sono molto tranquillo. Ovviamente nella fase di selezione sono arrabbiato, ma sono in studio, dove lavoro come un chirurgo. Al chirurgo non fa schifo vedere il sangue, perché è preparato a vederlo. Per me la stessa cosa con il materiale coloniale.

Délio Jasse, Città Foresta, Installation view. Courtesy dell’artista

In mostra al Tate Modern eravamo 35 fotografi africani e l’unico che rappresenta i bianchi nella fotografia ero io. Un amico mi ha detto “perché rappresenti solo i bianchi nella tua fotografia?”, ma il colonialismo non è stato fatto dai neri, è sempre tutto fino ad oggi causato dai bianchi. O “quanto è forte questo tuo lavoro!”  Chi l’ha fotografato, non io. È importante anche chiedersi dove sono queste fotografie antiche. Non sono in Africa, sono in Europa. Le hanno fatte per far vedere che avevano portato la civiltà. C’erano queste slide fotografiche trovate, inviate al fratello di un soldato per sviluppare dei rullini. Chiedeva nella lettera di non farle vedere alla loro mamma, perché c’erano foto di donne nere nude. Io ne ho fatto una mostra con questo titolo. Uno spettatore che va a vedere la mostra, wow, don’t tell mama, no? Poi quando vedi le fotografie coloniali hai tipo uno shock.

A cosa sta lavorando? Quali sono i prossimi progetti? 

Sto preparando una mostra per marzo nella galleria Filomena Soares.

Sto stampando in serigrafia sulle coperte termiche che mettono ai migranti quando arrivano o che servono comunque per riscaldare o raffreddare. I timbri che ho stampato sopra sono dei visti di approvazione o negazione del passaggio. È vietato entrare senza questo visto. Sono 4 in totale. Ci saranno poi dei piccoli visualizzatori di immagini retroilluminati dove le fotografie vanno dentro e tu vedi una storia diversa. Ci sono collage fittizi dove sovrappongo immagini reali di ambienti e persone.  La storia del colonialismo è tutta un’invenzione Europea. Io qui racconto la mia storia e creo una nuova narrazione. Ad esempio, inserisco la testa di una signora sulla testiera del letto della stanza del ministro del Mozambico (dietro le fotografie di questo servizio ufficiale dell’appartamento del ministro c’è scritto minuziosamente di quali stanze si tratta e cosa vediamo), o dietro un palazzo coloniale inserisco degli aerei militari. 

Ha usato il linguaggio coloniale per smontare le loro stesse fotografie

Esatto. Io in queste fotografie gioco con lo spettatore, come inserire uno scout, un esploratore nell’ufficio del giudice. Anche i titoli sono reali, riporto quelli ufficiali. Non cerco un titolo nuovo, ma è in base all’archivio e a quello che già è scritto. Sono anche, quasi l’unico fotografo che lavorando con l’archivio produce tutte le tecniche di stampa. Le faccio perché? Perché con tutta la tecnica smonto la fotografia e la rimonto.

Délio Jasse, Visitate l’Italia, 2022. Courtesy dell’artista

Lavora spesso con i timbri e i documenti, legati all’identità. È il documento a dire chi sei e non sei tu a dirlo. Le interessa questo aspetto?

Mi interessa molto la fotografia abbinata al documento, come nei vari passaporti portoghesi degli anni ’50 o qualcuno più recente, che colleziono. Quando penso al documento penso subito alla fototessera, il primo documento della nostra vita che dobbiamo rifare sempre o spesso. Da lì il tuo nome e la tua data di nascita. Poi arriva il timbro stampato a mezza luna che crea chi sei. È il sistema che abbina e crea la tua identità. Ogni volta che devi spostarti di Paese hai bisogno di questo documento. Ti chiedono chi sei? Perché entri? Quindi devi timbrare ancora. Se devi andare dal Senegal in un Paese d’Europa ti è impossibile. Devi avere un conto, tanti documenti e affrontare una pesante burocrazia, mentre un occidentale anche se non ha un conto o non ha nulla, può andare ovunque. Può stare lì tre, quattro o cinque mesi. Al contrario un africano arriva in barca poi in gommone o a nuoto, rischiando di non entrare e finire annegato nel mare perché è illegale per loro. Ma se hai un accordo petrolifero o comunque economico allora puoi entrare tranquillamente. Ti accettano. Molti artisti hanno problemi con i visti. In una mostra collettiva a cui ho partecipato non sono potuti venire. Quello che ti serve è questo aggressivo timbro che ti dice sì o no. Se dice sì, timbra e se dice no, timbra lo stesso. Anche per stare in un Paese ti serve quel timbro o quel foglio, perché senza non puoi aprire un conto corrente e non puoi viaggiare. Ti limita in tutto.


Délio Jasse è un artista interessato ai processi di stampa fotografica analogica come cianotipia e “Van Dyke Brown”. Oltre a sviluppare proprie tecniche di stampa personali, Jasse con il suo approccio meta-fotografico trasforma la fotografia coloniale per ricercare una memoria collettiva e approcciarsi al passato consapevolmente. Le ferite coloniali nel suo lavoro emergono dalle storie intime di famiglie e persone che hanno vissuto l’epoca. Utilizza materiali ricercati singolari nel contesto fotografico, come tessuti, piedistalli anni ’50 e visualizzatori vintage. 

Ha partecipato alle esposizioni internazionali MAXXI, Roma (2018); Villa Romana, Firenze (2018); Biennale dell’immagine, Lugano (solo, 2017); Collezione Walther, Neu-Ulm (2017); SAVVY Contemporary, Berlino (2017); Bamako Encounters, Bamako (2017); Biennale di Lagos, Lagos (2017); Tiwani Contemporary, Londra (solo, 2016); Walther Collection Project Space, NY (2016); Mostra internazionale Dak’art Biennale (2016); e il Padiglione dell’Angola, 56a Biennale di Venezia (2015); Mostra internazionale Dak’art Biennale (2024). 

https://deliojasse.com

https://biennaledakar.org

Istituto Italiano di Cultura di Dakar – Souvenir d’Italie