By Alessia D’Introno
Spesso nelle mostre collettive d’arte contemporanea, soprattutto in contesti istituzionali occidentali, le pratiche curatoriali tendono a ricondurre la complessità delle opere e delle visioni individuali degli artisti a un registro comune, appiattendo la diversità a favore di un’idea di comunità omogenea. A Brescia, la mostra Fragments of a World After Its Own Image presso ApalazzoGallery, si sviluppa in netta controtendenza a partire da una costellazione di ideologie, pratiche e immaginari in costante fermento. L’approccio curatoriale di Kwasi Ohene-Ayeh valorizza la discontinuità e la pluralità dei linguaggi, riflettendo il complesso e intergenerazionale panorama artistico ghanese.
Attraverso due figure fondamentali della fotografia del Novecento, la mostra offre la possibilità di uno sguardo storico, insieme visionario, sulla transizione postcoloniale. Felicia Abban, fotogiornalista e fotografa di studio, propone una ritrattistica in cui indaga con grande consapevolezza visiva l’auto-rappresentazione africana. James Barnor, pioniere della fotografia a colori in Ghana e fondatore del primo laboratorio a colori del paese, è ricordato per aver immortalato la nazione al momento della sua indipendenza. Tra i suoi scatti, documenta la vita della diaspora africana a Londra, cogliendone i cambiamenti culturali.

L’esposizione prosegue con il lavoro di alcuni artisti cresciuti nel contesto vibrante di Kumasi, città segnata da sperimentazione estetica e cambiamento sociale. Molti di loro sono legati al collettivo blaxTARLINES KUMASI. Fondato da Kąrî’kạchä Seid’ōu negli anni Novanta, il collettivo promuove l’arte come mezzo di emancipazione, eliminando le barriere tra tradizione e innovazione e opponendosi ai modelli euro-occidentali come universali. Fragments of a World After Its Own Image prende il titolo da una riflessione di Marx ed Engels sul processo con cui il capitalismo tende a omologare il mondo, lo stesso prodotto che ha dato forma al colonialismo. In risposta a questa logica, la mostra propone una visione alternativa, adottando la frammentazione e l’instabilità come strategie di resistenza. L’idea dell’arte come dono, inoltre – centrale nel pensiero di blaxTARLINES – mette in crisi la centralità del mercato, aprendo a una visione dell’arte come spazio condiviso e partecipativo.

Nell’esposizione i lavori dei dodici artisti ghanesi, impegnati tra identità, memoria e collettività, mostrano al pubblico le visioni frammentate della contemporaneità. Edward Prah combina la materialità all’archivio, interrogandosi sull’identità e sulla coscienza collettiva mediante il deterioramento e la rigenerazione. In Broken Images (2024–), trasferisce fotografie familiari su pannelli compositi in alluminio, alterandole con pigmenti, acquerelli e tè nero. Il risultato è una superficie offuscata e materica che simula il degrado del tempo, guardando l’archivio come un terreno instabile e fugace. Dennis Ankamah Addo (Niiankama) sviluppa una pratica che unisce pittura, scultura, film e installazione. Il suo lavoro si concentra sull’ubiquità degli oggetti e sulla loro capacità di incarnare memorie e ibridazioni. Le sue opere, spesso costruite a partire da materiali ordinari, invitano a riscoprire il quotidiano come spazio poetico e storico. Frane Akwasi Bediako esplora l’estensione tra tecnologia, esseri umani e ambiente in una idea di “amputazione” che rielabora e propone in macchine descritte come TRONS.

Gran parte della mostra è segnata dalla pittura, qui intesa come un grande contenitore di materiali e pensieri. Ernestina Mansa Doku lavora con pittura, video e scultura, reinterpretando forme organiche in un approccio post-umano. Agisce sulla forma con distorsioni, moltiplicazioni e riorganizzazioni cambiandone l’aspetto originario. Jeffrey Otoo sviluppa una pratica multidimensionale che esplora la complessità dell’esperienza umana tramite un linguaggio visivo ibrido. Le sue opere evocano un senso di temporalità fluida e ciclica, ispirandosi a sagome simboliche come il medaglione e utilizzando la resina per creare superfici eteree dalle prospettive mutevoli. Naomi Sakyi Jnr trae ispirazione dai mercati all’aperto del Ghana, trasformandoli in soggetti visivi ricchi di significato. Concentra la sua attenzione su oggetti come galloni, cassette e sacchi in plastica di polipropilene, restituendo il mercato come spazio vivo capace di reinventarsi. Con questa visione, contrasta le rappresentazioni convenzionali legate all’efficienza economica, rivelando invece un contesto vibrante e complesso, che sfugge a definizioni univoche.

Samuel Baah Kortey nella serie Where We Belong (2025), intreccia narrazioni ed eredità coloniali della diaspora africana italiana con l’estetica dei pettini e delle acconciature, per riscrivere spazi di rappresentazione. Il progetto riflette sulla cura dei capelli come pratica culturale e politica, dove gli oggetti quotidiani divengono archivi vibranti di memoria e resistenza. Tegene Kunbi, artista etiope, realizza composizioni astratte nelle quali forme geometriche e colori vibranti evocano paesaggi. Attraverso l’uso di olio e trame dei tessuti etiopi dei nei rituali religiosi, crea superfici stratificate che intrecciano armonia e tensione. Il colore diventa per Kunbi un linguaggio spirituale e identitario, mentre la struttura ricorrente dei suoi dipinti trasforma il gesto pittorico in un rituale e una lotta costante. Maame Adjoa Ohemeng crea mondi surreali e frammentati, popolati da figure ibride tra reale e virtuale. Le sue opere combinano materiali decorativi e tecniche scultoree su tela, dove anche la cornice diventa parte attiva della narrazione. Attraverso trame disarticolate e visioni utopiche, Ohemeng rifiuta strutture lineari lasciando spazio all’immaginazione e all’ambiguità. Infine, Isshaq Ismail assimila una pittura tattile fatta di impasti densi, figure deformate e colori vibranti, in uno stile da lui definito “semi-astrazione infantile”. Riflette sul grottesco come forma estetica e politica. Le sue figure, costruite come sculture, mettono in scena le sofferenze legate alla realtà sociale contemporanea.

In questa intervista, Ohene-Ayeh approfondisce la visione curatoriale del progetto, il ruolo cruciale di blaxTARLINES nel contesto ghanese e la scelta di un’estetica della discontinuità come forma di resistenza e rigenerazione.
In che modo la mostra Fragments of a World After Its Own Image incarna la tua visione della curatela come strumento di emancipazione, piuttosto che come semplice selezione estetica?
Personalmente, mi avvicino alla curatela come a un mezzo, non diversamente dal modo in cui un artista userebbe la scrittura, la fotografia o la pittura, per esempio. Grazie alla mia formazione come artista, avvenuta circa vent’anni fa in Ghana, curo sempre con la mente di un artista. È un modo in cui posso ancora praticare l’arte senza essere l’artista. Poi, come membro di blaxTARLINES KUMASI – che ha dovuto fare i conti con la curatela come modo di rispondere alle crisi (intellettuale, economica) e di creare nuove possibilità da tali condizioni – le implicazioni della curatela vanno oltre la selezione. La curatela, come minimo, si occupa di cura, selezione, esposizione e conoscenza. Questi sono alcuni degli elementi che informano Fragments of a World After Its Own Image, in termini di diversità delle opere messe in scena, di temperatura transgenerazionale e del modo in cui le opere in mostra abbandonano l’uniformità.
Mi piacerebbe sapere cos’è per te blaxTARLINES. Quali sono i suoi obiettivi? Come nasce?
Più che una rappresentazione, blaxTARLINES è un paradigma “open source” che opera su un modello frattale di collettivismo. È anche un’incubatrice di arte contemporanea con sede presso il Dipartimento di Pittura e Scultura della Kwame Nkrumah University of Science and Technology (KNUST) in Ghana. Inoltre, lo definiamo come un movimento di lavoro artistico ispirato a momenti chiave della politica emancipatoria. La fase inaugurale di blaxTARLINES è stata lanciata dall’artista-filosofo ghanese Kąrî’kạchä Seid’ōu, il cui progetto Emancipatory Art Teaching (2003 in corso) è diventato il mezzo con il quale le idee egualitarie sull’educazione artistica hanno iniziato a fare breccia nel KNUST[1]. Ad esempio, il progetto pedagogico-curatoriale-artistico “non proprietario” di Seid’ōu intendeva svelare il programma di studi ufficiale, nascosto e mancante del programma di pittura del KNUST, sovradeterminato dalle norme eurocentriche delle Belle Arti e dell’atelier. Queste ultime si erano radicate nell’educazione artistica fin dall’epoca missionaria del XIX secolo, ossificandosi durante la dominazione coloniale britannica della Costa d’Oro (antenato coloniale del Ghana) fino all’alba di questo secolo. Nel corso del tempo, Seid’ōu ha trovato dei complici in altri insegnanti del Dipartimento. Poi lo slancio è cresciuto fino a coinvolgere studenti, ex allievi e altri alleati al di fuori dell’accademia. Queste e il sistema economico globale che mantiene le divisioni tra mondi “sviluppati” e “sottosviluppati” costituiscono le crisi da cui è nata la necessità di creare blaxTARLINES. Nel 2015, blaxTARLINES è stata formalizzata come istituzione d’arte contemporanea nella scuola di Kumasi.

Come immagini l’evoluzione futura di blaxTARLINES?
BlaxTARLINES è la dichiarazione che un’altra possibilità può essere creata anche all’interno di un sistema conservatore. Il radicale spirito egualitario di blaxTARLINES è quello di creare condizioni da cui le persone possano emanciparsi, se lo desiderano (è qui che il co-sviluppo di curricula, spazi artistici ad accesso pubblico, piattaforme culturali, residenze, studi e così via diventano strategie chiave). Il modello pedagogico Seid’ōuiano è ancora strumentale: si tratta di passare dall’ottuso modello “docente che dà incarichi/studente che fa incarichi” al modello “docente tutore/studente consapevole”. In questo modo, ogni partecipante volontario decide come implementare o portare avanti il proprio modo di fare politica su questa linea. Può anche decidere di abbandonarla del tutto.
BlaxTARLINES è descritta come una “rivoluzione silenziosa” nell’educazione artistica in Ghana. Quali aspetti di questa rivoluzione ritieni siano presenti o riecheggino nelle opere degli artisti in mostra?
“Silenzioso” è usato qui come descrittore tattico e strategico. Da un lato, lo dobbiamo al panafricanista progressista Ayi Kwei Armah quando scrive che: “Il rivoluzionario, secondo [Frantz] Fanon, si inserisce tra la sua gente, senza far rumore”. Questa formulazione è fondamentale, ma poiché è così casualmente sottaciuta, la sua miriade di implicazioni sfugge ai lettori occasionali. [Amilcar] Cabral aggiunge che, nel processo rivoluzionario, il desiderio di visibilità è una malattia della dentizione e che le folle massicce, riunite per esprimere aneliti insurrezionali all’oppressore, non hanno senso. Hanno senso invece le iniziative silenziose, selettive, efficaci, efficienti. Cabral si trova su un terreno ancestrale: la società segreta meliorativa non è una novità in Africa”.
D’altra parte, il silenzio è usato nel contesto inquietante della fugacità (Fred Moten e Stefano Harney sono parenti in questo caso), poiché avevamo bisogno di inserirci nell’ambiente ultraconservatore dell’università, per influenzarlo abbastanza da funzionare in modo controintuitivo. Nel nostro caso, inserirci “senza rumore” nel sistema universitario era il modo più strategico per innescare il cambiamento generazionale. Questo spiega anche perché alcuni dei progenitori di blaxTARLINES hanno dovuto evolvere le loro pratiche di studio d’arte per occupare posizioni nelle strutture burocratiche-tecnocratiche dell’università, per essere in grado di apportare cambiamenti duraturi ai programmi di studio.Tutti gli artisti in mostra, tranne James Barnor, Felicia Abban e Tegene Kunbi, sono stati direttamente influenzati da queste politiche. Abban (1936-2024) e Barnor (1936-), sebbene formati da preoccupazioni generazionali diverse, hanno dimostrato una notevole fiducia in me e nei colleghi della mia generazione tanto da lavorare con noi. Questa fiducia e alleanza è dimostrata anche da Kunbi (nato nel 1980), un artista etiope che vive a Berlino, in Germania. Per me questo è un buon punto di partenza.

Puoi parlarci meglio dell’arte come dono di Seid’ōu?
Questo aforisma riconosce l’arte come parte dei beni comuni dell’umanità. È l’assioma guida di blaxTARLINES, inizialmente teorizzato da Seid’ōu per racchiudere lo spirito del suo progetto didattico. In primo luogo, si tratta di una posizione che sostiene la sovversione dell’idea spuria, ma prevalente, che il mercato sia il destino di tutta l’arte. Il mercato dell’arte costituisce un’istituzione (che, tra l’altro, ha diritto di esistere), ma un’eccessiva dipendenza dalla sua centralità rafforza le segregazioni di classe che funzionano solo per perpetuare la disuguaglianza e lo sfruttamento. In secondo luogo, la gift economy, per Seid’ōu, è ciò che egli definisce “dono non reciproco”, basato sulla logica della condivisione radicale, che sfida le leggi della privatizzazione, dell’accumulazione di capitale e della gentrificazione. La pedagogia è diventata per lui una forma artistica. Tutti i partecipanti all’incontro, anziché perdere qualcosa, guadagnano di più da questa modalità di condivisione, purché partecipino alla situazione di buon grado. Inoltre, il filosofo giapponese Kohei Saito sintetizza suggerendo che, piuttosto che la mercificazione capitalistica prevalente della vita quotidiana – in cui paghiamo per accedere a beni/servizi/esperienze anche (o forse soprattutto) quando sono essenziali per la nostra esistenza – potremmo esplorare un passaggio alla “comunificazione”, che è una logica che si apre ai beni comuni (cioè alle risorse culturali e naturali condivise che dovrebbero essere accessibili a tutta l’umanità), enfatizzando i valori d’uso rispetto ai valori di scambio e creando strutture economiche inclusive.
In che modo il titolo Fragments of a World After Its Own Image si riflette nelle pratiche artistiche presentate? In che modo gli artisti utilizzano il concetto di “frammentazione”?
Mi riferisco al “Manifesto del Partito Comunista” di Karl Marx e Friedrich Engels (1848), in cui criticano l’universalismo capitalista come struttura dell’egemonia borghese volta a “creare un mondo a propria immagine e somiglianza”. Questo sistema di mercato mondiale totalizzante, standardizzato e uniforme non può che alimentare l’imperialismo e il colonialismo. Uno dei fili conduttori principali della mostra è quello di interrogare questo falso universalismo e cercare di articolare un’inclusività radicale che non privilegi nessun centro singolare nell’affermazione di un’uguaglianza preventiva. Pertanto, “frammenti” evidenzia la sublimazione immanente di questa falsa totalità e del dispotismo, facendo i conti con la sua instabilità (proprio come i sostenitori di blaxTARLINES si sono infiltrati nel sistema burocratico che intendevano espropriare per creare una nuova via d’uscita). Dunque, se “un mondo a sua immagine e somiglianza” è formalistico, predeterminato, chiuso e delimitato, allora i “frammenti di un mondo a sua immagine e somiglianza” possono essere pensati come un coinvolgimento degli eccessi repressi di tali canoni dogmatici. L’esclusione arbitraria di tali eccedenze non significa che siano assenti. Gli artisti in mostra lavorano generalmente con questo atteggiamento nei confronti di forme, materiali, stili, generi e così via.

Felicia Abban e James Barnor sono figure fondamentali della fotografia africana: come dialogano le loro opere con quelle di artisti più giovani?
Vorrei sottolineare che per blaxTARLINES la realizzazione di mostre è un altro modo per canonizzare figure che sono state escluse dai discorsi esistenti sull’arte, nelle scuole d’arte e con altri mezzi di produzione del sapere.
Le pratiche di Abban e Barnor ci offrono un modo per costruire dialoghi intergenerazionali e forniscono anche un modo tangibile di interrogare l’evoluzione delle pratiche basate sulle lenti in termini di materiali, tecnologie e storie e di come gli artisti scelgono di appropriarsene oggi. Le loro pratiche spaziano dalla ritrattistica in studio alla fotografia commerciale, dal fotogiornalismo alla fotografia naturalistica. Mentre praticanti come Naomi Boahemaa Sakyi Jnr. (1999-) e Edward Prah (1997-) la utilizzano come mezzo, registro e tecnica per i loro tableaux anti-narrativi.
Che tipo di dialogo speravi si creasse tra le opere in mostra e il pubblico?
Essendo questo il mio primo progetto espositivo in Italia, non avevo aspettative specifiche riguardo al pubblico presente. Speravo solo che fosse disposto a vivere questa esperienza con me, con gli artisti e con le opere esposte. Per quanto riguarda la selezione delle opere, conoscevo già ogni artista e non vedevo l’ora di vedere cosa avrebbe fatto la mostra in termini di relazioni involontarie che si sarebbero formate. Anche lo storico Palazzo Cigola Fenarolli del XVI secolo, dove ha sede l’Apalazzogallery, con le sue pareti, le sue colonne e i suoi soffitti ornati, ha ampliato l’intera esperienza in modi che non avrei potuto prevedere.
Ci sono prossime mostre alle quali stai lavorando?
Sì, sto lavorando alla seconda parte di questa mostra che sarà inaugurata l’anno prossimo. Per ora sono tornato a Kumasi dove insegno al Dipartimento di Pittura e Scultura del KNUST. Anche gli artisti, so che sono sempre al lavoro (persino Barnor che è in pensione) e quindi non vedo l’ora di crescere insieme.
[1] principale dipartimento artistico del Ghana
[2] See Armah, Ayi Kwei. 1984. “Masks and Marx: The Marxist Ethos vis-a-vis African Revolutionary Theory and Praxis.” Présence Africaine 3 (131): 35–65
Kwasi Ohene-Ayeh, Ph.D., è un curatore e critico che vive a Kumasi, in Ghana. È un membro fondamentale dell’unione blaxTARLINES. Il suo lavoro curatoriale e la sua critica esplorano spesso temi legati alla politica emancipatoria e all’intreccio tra curatela e pedagogia. È docente presso il Dipartimento di Pittura e Scultura della Kwame Nkrumah University of Science and Technology (KNUST), a Kumasi. Tra i progetti curatoriali di Ohene-Ayeh figurano Fragments of A World After Its Own Image (2025) alla APALAZZOGALLERY di Brescia, Italia; TRANSFER(S), mostra personale di Ibrahim Mahama in Germania e Ghana nel 2023; Ghana 1957: Art After Independence (2024-2025) ad Accra, Ghana; la 12a edizione di Bamako Encounters: Biennale of African Photography (2019-2020); Akutia: Blindfolding the Sun and the Poetics of Peace (A Retrospective of Agyeman Ossei ‘Dota’) (2020-2021) a Tamale, Ghana; Orderly Disorderly (2017) organizzata da blaxTARLINES ad Accra; e la 35esima edizione della Biennale di arti grafiche di Lubiana come membro dell’Exit Frame Collective (2023-2024) in Slovenia. Tra le sue pubblicazioni curate figurano TRANSFER(S) (2024), la recente monografia di Mahama pubblicata da Distanz, e From the void came gifts of the cosmos: a reader (2023), lettore ufficiale della 35a Biennale di Lubiana. I saggi pubblicati da Ohene-Ayeh sono apparsi su ArtReview, E-flux Architecture, African Arts Journal e molti altri.
Fragments of a World After Its Own Image
Apalazzo Gallery Brescia
curata da Kwasi Ohene-Ayeh
29/03/2025 – 17/05/2025