La rappresentazione culturale dall’antropologia visuale alla critica post-coloniale della filmmaker Trinh T. Minh-Ha

Di Alessia D’Introno

Il lavoro della filmmaker Trinh T. Minh-ha, attraverso il suo iconico film “Reassemblage”, sfida le convenzioni dell’antropologia visiva e del documentario, criticando le rappresentazioni coloniali imposte in Africa. Con un approccio post-coloniale e intersezionale genererà dei cambiamenti netti alla narrazione dominante verso la fine del Novecento.

L’immagine è lo scettro più fidato per uno studioso europeo. Attraverso l’occhio, la mente traduce la natura in immagine al fine ultimo di comprendere, ma questa comprensione è culturale e può cambiare a seconda della propria simbologia. Dapprima con le mappe per l’orientamento e i disegni, agli inizi del Novecento l’antropologo visuale sperimenta nuovi strumenti per documentare i viaggi di studio sul campo: la fotografia. Questa arriva come supporto al diario di bordo, approfondendo la ricerca al ritorno in patria. L’occhio dell’esperto europeo però, può produrre soltanto una visione europea. In effetti è attraverso la fotografia e le riprese videografiche non contestualizzate, che lo studioso alimenta i pregiudizi sul continente africano. La sua pretesa era di parlare di un oggetto o per un soggetto con lo scopo di catalogarli. Non poi così lontana dalla teoria dell’antropologo Edward Tylor – uno tra i definiti antropologi da poltrona – che nel 1889 conia il metodo comparativo evoluzionista declassando le culture del Sud Globale ad un rango inferiore. Si tratta di una classificazione dell’essere umano in base al suo grado di evoluzione: dal civilizzato dei popoli occidentali, al barbato dei popoli asiatici e al selvaggio dei popoli africani.

Il clima di supremazia instaurato dal civilizzato, nonché la proiezione delle proprie insicurezze sull’altro, ha alimentato l’invenzione coloniale del primitivo, un termine dispregiativo attuo a produrre la spettacolarizzazione e la visione semplicistica della storia subsahariana. Ma come ha ribadito Valentin-Yves Mudimbe, non parlano né di Africa, né di africani, ma invece giustificano il processo di invenzione e conquista del continente, descrivendo la sua primitività, il suo disordine, e, di conseguenza, i mezzi per il suo sfruttamento e i metodi per la sua “rigenerazione”1L’europeo propende alla purezza culturale più che alla sua alterità. Si tratta, come riprende Remotti da Platone, di distaccare il peggiore dal migliore. L’identità è costruita e si forma sulla separazione o sull’assimilazione. Attraverso una “pulizia” dell’altro, attraverso la rinuncia alle molteplicità, si forma la particolarità2. Questa però può, sia incrementare coerenza, sia rafforzare degli ideali di discriminazione di superiorità. La purificazione, che è essa stessa un concetto che si crea, può prendere dunque la forma di una correzione culturale o di eliminazione dell’altro, qui conducendo fino al genocidio o all’etnocidio. È la visione del Primitivo come inferiore a lasciare al colonizzatore una scusa per dare adito ai suoi sfoghi. Il colonizzatore per salvaguardare la propria buona coscienza, si abitua a vedere nell’altro la bestia, si allena per trattarlo da bestia, e tende obbiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia3. Fanon diceva già negli anni Cinquanta che il bianco civilizzato conservava una certa nostalgia irrazionale per le epoche di licenza sessuale, proiettando nel colonizzato i suoi istinti e comportandosi “come se” il nero avesse realmente queste licenze.

L’antropologia visuale oggi ha cambiato i suoi paradigmi. Si staglia eticamente e si mette in discussione attraverso un pensiero critico. D’altro canto, nasceranno la teoria anticoloniale, la letteratura e la cinematografia post-coloniale, attue a dimostrare e a far conoscere le diverse complessità culturali. Le basi poste dal lavoro teorico dello psichiatra Frantz Fanon, come l’autorappresentazione e la creazione di modelli per l’educazione infantile saranno le fondamenta per un cinema tutto nero. La sua forza sta nello scacciare la convinzione dell’autenticità. Si parla spesso di autenticità, infatti, ma è una spiegazione che serve più per l’altro. Quando viene rivendicata per sé, potrebbe essere un modo di interiorizzare i valori dominanti, nel concetto di assimilazione di Fanon. Si può essere autentici solo se ci si limita a chiudere porte e a erigere recinzioni4, così la filmmaker Trinh T. Minh-ha parla di Reassemblage, un film anti-etnografico e anti-documentaristico girato in Senegal nel 1982. Il film mira a ritrattare queste convenzioni e rappresentazioni e incoraggia all’ambiguità delle riprese etnografiche coloniali. I presupposti sono di non parlare per, solo parlare accanto.

Trinh T. Minh-ha, Reassemblage, 1982

Il film tenta la distruzione dei paradigmi e dei linguaggi universalizzati attraverso la decostruzione delle ideologie passate. Il guardato può rivendicare la propria identità ed eliminare la sua esotizzazione. Attraverso l’anti-etnografia la regista introduce l’ideologia intersezionale: non esistono categorie, ma genere, etnia e classe sono mescolate fra loro. Una modalità che sfida l’oggettivazione attraverso l’intermedio, l’ibrido, il liminalePer questa ragione la sua voce è riflessiva, sempre ridiscussa e opposta all’autorità documentaristica. La voce fuoricampo è poetica. Lascia trapelare riflessioni e immagini suggerendo suoni e silenzi e tramite questi ammette una certa finzione a propri nella forma delle riprese. Ho scritto “il documentario non esiste” perché è illusorio dare per scontato la realtà e il reale e pensare che esista un linguaggio neutrale, nonostante spesso miriamo a questa neutralità nel nostro lavoro accademico. Usare un’immagine è entrare nella finzione5 .

Parlare di una realtà oggettiva non è la strategia di Minh-ha, la cui voce culla il montaggio, incoraggiando più sguardi e criticità nello spettatore. Non si prefigge di dimostrare la realtà di un’intera cultura, ma guarda ad un piccolo villaggio del Senegal dove scruta lo stereotipo imposto sulle donne e lo scompone attraverso il dialogo, il confronto e la condivisione, sperimentati nei tre anni prima delle riprese. Scrive di questi anni che imparare e insegnare erano allora un unico processo: mentre insegnavo composizione musicale, armonia e apprezzamento della musica, stavo anche imparando un’altra musica—lo stile di vita africano attraverso i miei studenti e le persone che incontravo. Venivamo da contesti molto diversi, e semplicemente sedersi insieme per parlare di tutto e niente era molto stimolante. Eravamo scrittori (scrittori letterari e politici), ricercatori, narratori e performer. Ma invece di mostrare il comando e la padronanza di ciò che sapevamo, volevamo… non liberarci, ma diciamo, “liberarci di” troppi bagagli.

Trinh T. Minh-ha, Reassemblage, 1982

In Reassamblage le donne sono culturalmente responsabili del fuoco che può unire, ma anche distruggere. È un potere tutto femminile che si fonde con il corpo, il vero protagonista per Minh-ha. Si vede un corpo frammentato in dettagli. La macchina da ripresa è attenta ai rituali del lavoro come per il gesto dell’intessere e per l’attenzione tradizionale per la frantumazione del grano. Questi gesti ripresi prima come sconnessi, si ricompongono in una visione comunitaria durante i processi lavorativi condivisi o durante le danze. La quotidianità dei gesti e delle espressioni comunitarie sono la chiave per la filmmaker, che si fa sempre meno autoritaria. Il suo linguaggio non è scientifico-antropologico: si sgancia dal concetto, così da aprire a interpretazioni soggettive.

Trinh T. Minh-ha, Reassemblage, 1982

L’arte potrebbe essere la forza che permette il cambiamento e mantiene viva la storia, mentre la poetica del quotidiano creativo potrebbe essere sia una dimensione della coscienza politica che un modo trasformativo di fare storia6, così parla della quotidianità come elemento puro di trasformazione. Nella sua pratica teorica e filmica, Trinh T. Minh-ha lavora spesso con la figura dell’inadeguato, dello straniero, del forestiero, del rifugiato e del rifiutato. Il suo principio è quello di sfidare l’autenticità occidentale. Si mette in discussione, si scontra contro la piattezza oggettiva e sfida le concezioni assodate come universali. Non si rivolge solo alla figura dell’antropologo, ma fa i conti con il missionario, il turista e lo spettatore comune, soprattutto fa i conti con se stessa come donna e come ex-colonizzata. Fino a che punto ho assimilato i mezzi del padrone? Come utilizzare quegli strumenti per decostruire il sapere? Il film è un invito a interrogarsi su cosa pensiamo di sapere e su cosa assimiliamo per vero. Quali sono le nostre aspettative prima ancora di mettere in play un film sull’Africa? 


Trinh T. Minh-ha è una cineasta indipendente, femminista e teorica postcoloniale vietnamita. Docente di studi di genere e femminili e di retorica presso l’Università della California, Berkeley. Il suo lavoro teorico femminista ha sfidato le rappresentazioni stereotipate nei media. Ha introdotto un’estetica post-coloniale intersezionale sfidando una narrativa che sfugge al tradizionale storytelling, rompendo le convenzioni cinematografiche. Ha concettualizzato il cammino della molteplicità come un’azione politica e come uno strumento di resistenza. Ha scritto libri come Woman, native, other (1989), Cinema Interval (1999) e altri. È regista di lungometraggi tra cui Reassemblage (1982), Naked Spaces (1985), Surname Viet Given Name Nam (1989), Shoot for the Contents (1991), A Tale of Love (1996), The Fourth Dimension (2001) e Night Passage (2004).


  1. Valentin-Yves Mudimbe, The Invention of Africa, 1988 ↩︎
  2. Francesco Remotti, Contro l’identità, 1996  ↩︎
  3. Aimé Césaire, Discorso sul Colonialismo, 1955 ↩︎
  4. Frieze, ‘There is No Such Thing as Documentary’: An Interview with Trinh T. Minh-ha ↩︎
  5. Ibidem ↩︎
  6. Feminist, Art Coalition. Trinh T. Minh-ha, Notes on Feminisms ↩︎