Capitolocene e centricità. Intervista ad Andrea Staid

Di Alessia D’Introno

Attraverso la visione antropologica improntata sulla salvaguardia della natura, l’antropologo culturale Andrea Staid spiega le diverse terminologie del mondo antropologico e di come queste abbiano influenzato e continuino ad influenzare il mondo. 

In la Casa vivente Essere Natura, frantuma la dicotomia uomo/natura occidentale e la sua conseguente oggettificazione dell’ambiente, introducendo una visione opposta a quella costantemente mediatizzata: lei parla di capitolocene e di occidontocene e non di antropocene. 

Siamo abituati a pensare alla crisi climatica e alla situazione geologica attuale come antropocene, dove i nostri consumi e stili di vita hanno distrutto il pianeta. Antropos sta per inquinamento di tutti gli uomini sul pianeta. Molte culture native ci fanno notare che non è colpa di tutti gli umani, ma che è responsabilità di un certo tipo di umani. In epoca coloniale – e non è mai finita – l’Occidente ha utilizzato senza fine la natura in una visione materica dove le montagne, i mari e i fiumi non sono altro che magazzini di oggetti da sfruttare. Quindi la critica che ci viene fatta è, più che Antropocene, potremmo chiamarla Capitolocene. È una visione di vita di produzione capitalistica, quindi di sfruttamento del pianeta come merci da cui trarre profitto, e che ha portato alla distruzione ecosistemica. Più che nell’antropocene, siamo dunque nell’Era del Capitolocene, cioè dove questo tipo di pensiero sul mondo, questo tipo di economia di distruzione senza frontiere, ha portato alla distruzione di Gaia, del pianeta.

Sapa. Fotografia di Andrea Staid

Come i viaggi e le ricerche l’hanno segnata?

Mi sono concentrato soprattutto sul sudest asiatico, su comunità quali Dzao e Hmong, fra Thailandia e Vietnam e sul Sudamerica. Ho avuto la possibilità di incontrare il mondo Quetchua e Haimarà, delle Ande, tra Perù e Bolivia. Poi ho fatto una piccola ricerca nel Valle Sagrado nel Cusco e sono stato a Urubamba Kotowincho, in una casa autocostruita di una curandera di Hober. L’anno scorso sono stato con i Guaranì a nord dell’argentina, tra Paraguay e Brasile. Adesso sto scrivendo e tirando le somme di questi dieci anni. Sono tante le cose che mi hanno segnato. L’Andrea di dieci anni fa che è partito per fare ricerca non esiste più, esiste ora un costrutto di Andrea che è strettamente legato alle esperienze che ha fatto con altre culture e altre visioni di mondo. Quello che mi ha colpito di più è sicuramente il concetto di natura e di casa da parte di comunità che hanno una cosmologia animista. Nel mondo naturale l’uomo non è separato dall’entità della natura e la casa non è qualcosa di proprietà dove noi andiamo a rinchiuderci solo per dormire, ma è proprio la relazione collettiva che si ha nella comunità. Una comunità non soltanto di umani, ma che va oltre la questione di specie: comunità con gli alberi, con gli orti, con la selvaggina. Il luogo dove più mi sono sentito in transito culturale di mettermi in prospettiva è stato tra la comunità Dzao in Vietnam. Mi ha colpito il concetto stesso di vita e di morte e c’era una relazione con il potere di abitare e di costruire diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. Esula dalle mie ricerche etnografiche, ma una cosa che mi ha scosso molto è stata, nel sud est asiatico, la scoperta e l’ingresso nel mondo della spiritualità jainista e buddista. Vedere la pratica del culto all’interno dei templi, sia a livello archeologico sia contemporaneo, mi ha fatto provare un fascino estremo, rispetto anche alla mia relazione con la chiesa e con il culto occidentale. 

Case in pietra. Himalaya, Nepal. Fotografia di Andrea Staid

Quali sono, secondo lei, le sfide da affrontare oggi?

La sfida sarebbe quella di cambiare i nostri usi e costumi per interrompere la distruzione dell’ecosistema. Bisognerebbe abitare in una maniera più elastica e troncare la visione etnocentrica e antropocentrica che sempre più ci sta portando verso la fine. Un’altra urgenza principale è adesso quella di frenare le guerre e porre fine al militarismo impedendo la produzione di armi. Sarebbe l’unica soluzione a quello che accade oggi in Palestina e Israele, Libano e Iran, Ucraina e Russia, Sudan e Myanmar. Io credo che l’urgenza sia il discutere una politica di pace che va costruita tramite la capacità di negoziare. Questo poi è strettamente legato alla questione dell’ecologia prima citata, perché le guerre oltre le vite umane distruggono la vita della terra. È una realtà che non vediamo e che non ci accorgiamo di esistere, solo perché viviamo in un mondo fatto di privilegi, ma molto spesso siamo la causa di questi conflitti.

Possiamo dire che è l’etnocentrismo ad aver scatenato queste emergenze? Può spiegarci cosa si intende?

Edward Tylor fonda l’antropologia evoluzionista unilaterale sulla questione etnocentrica, ponendo al di sopra la propria cultura di appartenenza. Etnocentrismo infatti è la tendenza di ogni cultura a ritenere i propri modelli culturali migliori e superiori a quelli altrui. Quindi studio gli altri pensandomi con i miei filtri, assumendo come metro di misura i miei valori culturali. L’antropologia da Franz Boas in poi, cerca di negare l’etnocentrismo e di fondare una visione critica di questa postura attraverso un relativismo culturale, quell’atteggiamento scientifico che mira alla conoscenza e alla comprensione, quindi non alla giustificazione morale, e che sappia mettersi in prospettiva con le altre culture. Non ci sono culture superiori o inferiori. L’antropologia nel tempo ha compreso che non si può giudicare secondo i propri parametri. Ci sono tante culture differenti nel mondo che si sviluppano al loro interno in maniere differenti. Semplice o complessa, questa è una dicotomia errata. Per un cambiamento di paradigma completo bisogna però arrivare agli anni ‘70, quando si cominciano a figurare i primi termini di antropologia post-coloniale, de-coloniale e di antropologia interpretativa. Sicuramente fra i primi possiamo citare l’antropologo Clifford Geertz. Senza dimenticare il precedente lavoro di Michael Leiris. Tra le riflessioni che ha portato nell’etnologia troviamo la questione del museo occidentale come qualcosa di estremamente politico che ha costruito la supremazia bianca. L’etnografia si è trasformata grazie al suo discorso sulla negazione costante del furto coloniale, sull’appropriazione delle opere e sull’esposizione delle culture altre. Ora il museo non è più l’unico modo per rappresentare la storia e la visione di altre culture.

Architettura. Mongolia. Fotografia di Andrea Staid

Come applicare un decentramento dello sguardo?

Dobbiamo percepire oggi il nostro punto di vista come uno tra i tanti altri. Ovvero, il nostro mondo culturale è uno dei tanti mondi possibili. La capacità di metterci in prospettiva con l’altro significa proprio decentrare il nostro sguardo, non pensare che tutte le soluzioni e tutte le cose giuste vengono dal nostro mondo culturale, che sia esso occidentale o no. La questione è proprio la capacità di relativizzare il proprio posizionamento del mondo. Con tutti i difetti che può avere la nostra contemporaneità, ti offre però la possibilità di operare questo decentramento con più facilità. 

Andrea Staid

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Andrea Staid è un antropologo culturale italiano. Docente di Antropologia culturale e visuale presso Naba e presso l’Università statale di Genova. Ha diretto per Meltemi la collana “Biblioteca Antropologia”. Tra le sue pubblicazioni: Essere natura (UTET 2022), La casa vivente (ADD 2021), Disintegrati (Nottetempo 2020), Contro la gerarchia e il dominio (Meltemi 2018), Senza Confini (Milieu 2018), Abitare illegale (Milieu 2017), Le nostre braccia (Milieu 2011- 2015), Gli arditi del popolo (Milieu 2008-2015), I dannati della metropoli (Milieu 2014). Collabora con diverse testate giornalistiche, tra le quali Il Tascabile e Left.