Sotto l’Ombrello del Potere: Archivio, Eredità e Sovranità. Intervista all’artista Rita Mawuena Benissan

Di Alessia D’Introno

Dico sempre che vorrei che chiunque esca da una mia mostra, o guardi una mia opera, si sentisse un re o una regina madre per un giorno; che si sentisse regale, potente, anche solo per un momento. Perché spesso non abbiamo nulla che ci faccia sentire ricchi o regali, ma io voglio che il nostro passato ci restituisca quel potere. Perché quelle eredità potenti sono ancora con noi, le portiamo tuttora. Quindi la domanda è: come possiamo incorporare queste immagini nella nostra vita quotidiana, in modo da continuare a conoscere la nostra storia in Ghana, e allo stesso tempo imparare anche la storia reale? 

Rita Mawuena Benissan, artista visiva e fondatrice della piattaforma no-profit Si Hene, è attualmente in residenza a Londra con la Gallery 1957 e ha presentato recentemente la sua mostra personale One Must Be Seated, presso lo ZEITZ MOCAA in Sud Africa (13 Novembre 24 – 05 octtobre 25). Parallelamente, Benissan è tra gli artisti della Sharjah Biennial 16 (6 febbraio – 15 giugno 2025). La sua pratica nasce da una ricerca sugli ombrelli regali della tradizione dei costumi Asante ghanesi, simboli di autorità spirituale e politica, mossa dalle sue origini. Da lì ha preso forma un lavoro che unisce archivio fotografico, memoria e materiali tessili, con l’obiettivo di decostruire la distorsione coloniale intorno alla sovranità tradizionale nel Ghana precoloniale – dove i “capi” erano, in realtà, re legittimi con ruoli profondamente radicati nella società – nel tentativo di recuperare una narrazione storica autentica e non filtrata dalla visione occidentale. 

Rita Mawuena Benissa, details. Photo courtesy of the artist and Gallery 1957

Durante l’epoca coloniale, l’istituzione del chieftaincy è stata strategicamente manipolata. I legittimi governanti, un tempo potenti leader spirituali e politici, sono stati ridotti a figure cerimoniali, la loro autorità minata e rifusa attraverso la lente del controllo coloniale. Questa eredità permane ancora oggi, plasmando il modo in cui molti percepiscono la leadership tradizionale, come qualcosa di superato, ornamentale o puramente simbolico – spiega Benissan –Attraverso opere come The Triumphant King Rules (Ɔhene a wadi Nkonim No Di Tumi) (2023), sto intenzionalmente riformulando questa narrazione. Quest’opera, che reimmagina l’ombrello reale come un’opera tessile monumentale ricamata con i ritratti dei capi del passato, è un atto di restauro visivo. Riporta questi capi al centro dell’attenzione, non come soggetti passivi della documentazione coloniale, ma come detentori attivi di potere, dignità ed eredità. Incorporando immagini d’archivio e trattando l’ombrello come un monumento e un archivio, sto affermando che le nostre tradizioni non sono reliquie, ma dinamiche intellettuali e degne di riverenza.

Rita Mawuena Benissa, The Triumphant King Rules (Ɔhene a wadi Nkonim No Di Tumi) 2023, One Must Be Seated. Photo by Dillon Marsh. Courtesy of Zeitz MOCAA

Gli ombrelli regali non sono l’unico elemento imponente. Dietro di essi sono incorporate queste corpose narrazioni e gli archivi fotografici di Si Hene. Come l’artista stessa afferma: invece di costruire un ombrello tradizionale, creo opere che istituzioni, musei o fondazioni possano esporre e avere, diciamo, opere tessili che contengono immagini d’archivio. Così, quando le persone visitano le mie mostre, non vedono solo la storia degli ombrelli, ma anche quella delle fotografie. Fotografie che magari erano in bianco e nero, ma che ora vedono prendere vita, perché posso incorporarvi diversi colori e porre domande su “come sarebbe potuta essere” quell’immagine all’epoca, o “cosa indossavano in quel periodo”. Molto spesso non ci poniamo queste domande quando pensiamo a chi siamo come ghanesi.

In questa conversazione Rita Mawuena Benissan riflette sul potere delle immagini come strumenti di riscrittura storica, sulla regalità come esperienza quotidiana e sull’urgenza di restituire complessità e dignità alla storia. Attraverso mostre, archivi e collaborazioni intergenerazionali, il suo lavoro sembra rispondere a una domanda importante: come possiamo riportare la luce nei nostri Paesi?

Partiamo dalla fondazione Si Hene. Cosa ti ha spinto alla sua creazione?

Si Hene, che in Akan significa enstoolement (‘raising a chief to power’), è una fondazione dedicata alla salvaguardia e alla promozione dell’eredità culturale e degli archivi dei capi in Ghana. Fondata nel 2020, la mission della fondazione si concentra su tre principi fondamentali: salvaguardia, accessibilità e consapevolezza.

Sono cresciuta negli USA, dove esiste una forte cultura della documentazione, dei musei e di accesso a archivi storici, anche quando si tratta di storia africana vista dalla prospettiva di uno straniero. Tuttavia, più cercavo le mie radici, più capivo quanto poco materiale sulla storia del Ghana facilmente reperibile ci fosse, specialmente sugli archivi locali e le tradizioni sulle cariche dei capi.  Questo contrasto è rimasto con me. Perché in Ghana, dove ha origine gran parte di questa cultura, l’accesso è limitato? Perché molte storie, fotografie e tradizioni non vengono salvaguardate o semplicemente scompaiono?

Io ho studiato fotografia per il mio master in belle arti. Negli Stati Uniti avevo un professore nativo americano, ed era proprio il suo progetto di tesi: archiviare la storia dei nativi americani in Wisconsin, una storia che rischia di essere cancellata. Così io archiviavo immagini, documentari, documenti — e lo accompagnavo anche agli eventi e alle feste tradizionali, catalogando tutto.

Quell’esperienza mi ha fatto pensare: “Posso farlo anch’io, per me stessa”. Era anche il periodo del COVID, quindi l’università era chiusa, gli studi erano chiusi, ma avevo tutti questi libri e tutte queste informazioni. E così ho iniziato un mio archivio su Instagram chiamato Si Hene, dove pubblico tutte le immagini e i filmati che trovo durante la mia ricerca. Sono ormai cinque anni, è come se fossero cinque anni della mia pratica artistica, ma anche cinque anni della mia ricerca personale.

Si Hene Foundation. Photo courtesy of the artist

Possiamo dire che il tuo lavoro archivistico tenta un cambio dei paradigmi culturali, quindi come il Ghana viene percepito?

Sì, penso che il mio lavoro d’archivio stia cercando di cambiare i paradigmi culturali precedenti sia rispetto a come il Ghana viene percepito esternamente sia rispetto a come noi ci percepiamo internamente.

Storicamente, il Ghana (e l’Africa in modo più generico) è stato rappresentato spesso attraverso il punto di vista coloniale, come un luogo del passato, di perdita o di tradizioni statiche. Le nostre narrazioni sono state troppo spesso raccontate su di noi, non da noi. 

Attraverso il mio lavoro, sto sfidando tutto questo. Voglio mostrare che il Ghana è un luogo di storie sovrapposte, di tradizioni intellettuali profonde, innovazione e bellezza. Concentrandomi sulle cariche dei capi, sugli archivi familiari e sulla cultura visiva, specialmente attraverso materiali come il ricamo, la fotografia, le installazioni, sto rendendo visibile ciò che è stato trascurato o semplificato per molto tempo.

Facendo ciò, spero di cambiare le percezioni: dal vedere il Ghana solo attraverso gli occhi del trauma coloniale o del turismo, al riconoscerlo come uno spazio di sovranità intellettuale dove tradizione e futurismo coesistono. Voglio che le persone, sia in Ghana sia all’estero, vedano la nostra eredità non solo come qualcosa che svanisce, ma come qualcosa di vivo, in evoluzione e degno di grandezza. 

Si Hene Foundation. Photo courtesy of the artist

In che modo il lavoro di Si Hene contribuisce a creare nuovi spazi contemporanei per mostrare e valorizzare la cultura ghanese all’interno del paese?

Molta della nostra storia è stata conservata all’estero. L’obiettivo di Si Hene è cambiare questa dinamica. Attraverso la creazione di programmi archivistici, workshops come Vanishing Past e installazioni a contatto col pubblico, stiamo costruendo nuovi spazi contemporanei di memoria, in cui le storie locali, le storie delle famiglie e il sapere tradizionale non vengono solo salvaguardati ma anche attivati. Questi spazi non sono sempre musei o gallerie convenzionali, ma sono laboratori pop-up, centri comunitari e anche eventi all’aria aperta che incontrano le persone nel luogo in cui si trovano. Noi non mostriamo solo la cultura, ma invitiamo le persone a parteciparvi, portando le proprie fotografie, le proprie storie e il sapere. L’arte dell’inclusione è potente, ridefinisce cosa conta come storia e chi riesce a raccontarla.

Quali progetti recenti hanno avuto un impatto significativo sulle comunità locali?

Uno dei progetti recenti più incisivi di Si Hene è The Vanishing Past Workshop: un’iniziativa comunitaria di archivistica di 3 giorni tenutasi in onore del 95esimo compleanno del leggendario fotografo James Barnor. 150 partecipanti hanno aderito al workshop e il risultato è stata la digitalizzazione di più di 200 archivi personali, tra cui preziose fotografie di famiglia e documenti storici. 

I partecipanti hanno imparato come preservare le proprie storie familiari attraverso lo storytelling, la digitalizzazione e la documentazione della storia orale. Abbiamo sottolineato che la salvaguardia dell’eredità ghanese non inizia dalle istituzioni, ma inizia a casa. Il workshop ha creato uno spazio accogliente in cui persone di tutte le età hanno avuto la possibilità di connettersi con le loro radici, condividere le loro storie e celebrare il potere della memoria e della storia.

È stato più di un evento, è stato un movimento per mostrare che ognuno ha una storia degna di essere conservata, e che facendo ciò, costruiamo una memoria culturale più forte ed inclusiva per il Ghana. 

Si Hene Foundation. Photo courtesy of the artist

Quali sono i piani per il futuro di Si Hene? 

Si Hene ha piani ambiziosi e importanti per il futuro. Uno dei nostri principali obiettivi è costruire un centro culturale in Ghana, uno spazio permanente che ospiterà il nostro archivio in espansione, esibizioni, workshop istruttivi e svolgerà la funzione di hub per la ricerca, l’interazione con la comunità e l’esplorazione creativa. Stiamo anche ampliando le nostre collaborazioni con istituzioni locali e internazionali, tra cui musei, gallerie ed enti culturali per co-creare mostre, condividere sapere archivistico e dare maggiore visibilità alle tradizioni ghanesi a livello globale.

Immaginiamo uno spazio che non solo salvaguarda la storia, ma la porta in vita. Uno spazio in cui gli studenti possono apprendere pratiche archivistiche, dove gli anziani possono condividere il loro sapere e dove artisti, ricercatori e il pubblico può interagire con l’eredità ghanese in modi che si percepiscono come rilevanti, accessibili e stimolanti. Questo centro sarà un ibrido, in parte archivio, in parte laboratorio, in parte santuario. 

Ultimamente sei in costante fermento espositivo. Puoi descrivere le opere presentate alla Sharjah Biennal 16? 

Alla Sharja Biennal 16 ho presentato You Must Cross and Seek, un’installazione che rende omaggio all’eredità e alla vita di tutti i giorni del popolo Ewe e alla mia discendenza Anlo nella regione Volta del Ghana. Attraverso film, fotografie, sculture e tappezzeria ricamata, l’opera esplora l’acqua come folklore, forza spirituale e fonte di vita.

Gli ombrelli reali fungono da santuari, mentre il film poetico nell’Anlo Ewe evoca tradizioni costiere, la narrazione di storie e rituali. Una delicata rete da pesca collega la terra al mare, la natura allo spirito. L’opera, in ultima battuta, chiede allo spettatore: ‘Sei pronto a rispondere alla chiamata ancestrale e ad attraversare l’acqua verso una nuova vita?’

Rita Mawuena Benissan, HAMRIYAH. Photo courtesy of Sharjah Art Foundation

You Must Cross and Seek è profondamente connesso alla cosmologia del popolo Ewe, dove l’acqua non è solo un elemento naturale, ma è una presenza vivente spesso personificata attraverso divinità come Mami Wata e funge da ponte tra il mondo fisico e quello spirituale. Pratiche cerimoniali come il versamento delle libagioni, la pulizia rituale e l’invocazione degli antenati sono centrali nel sistema di credenze Ewe, specialmente durante i riti di passaggio e i festival. L’atto di attraversare l’acqua, sia esso fisico o metaforico, è una trasformazione simbolica, una cura e una connessione con la propria stirpe. Il motivo a rete da pesca nell’opera si riferisce ai mezzi di sostentamento delle comunità costiere Ewe, per cui la pesca è sia un mestiere artigianale sia una metafora di navigazione delle profondità della vita. La lingua, specialmente l’anlo ewe, è una parte vitale della conoscenza. L’installazione incanala questi elementi per evocare uno spazio sacro e riflessivo in cui gli spettatori sono invitati non solo a osservare, ma a entrare spiritualmente nella coscienza ancestrale e culturale che l’opera incarna.

Rita Mawuena Benissan, HAMRIYAH. Photo courtesy of Sharjah Art Foundation

La tua pratica è profondamente connessa alle tradizioni Ewe. Deriva da una ricerca personale?

Sì, sono profondamente connessa sia con la tradizione Ewe sia con la traduzione Asante, e questa connessione è molto personale. Mio nonno paterno, Togbe Fosuhene III, era un capo. Non ho mai avuto la possibilità di conoscerlo, ma sapere che discendo da qualcuno di questo calibro culturale e spirituale ha plasmato il modo in cui mi muovo nel mondo. La sua eredità mi lega direttamente alle tradizioni dei capi ewe, e attraverso i collegamenti familiari e le ricerche, ho interagito da vicino con il simbolismo e il cerimoniale asante.

Portare dentro di me entrambe queste tradizioni mi sembra una forma di eredità, non solo di sangue, ma di dovere. Ecco perché lavoro con oggetti come gli ombrelli, gli sgabelli, e i tessuti: non si tratta di semplici materiali, ma di simboli viventi che parlano di leadership, memoria e presenza spirituale. Nonostante non abbia mai conosciuto mio nonno, sento che il mio lavoro sia un dialogo con lui. È il mio modo di rispondere alla sua chiamata nel corso del tempo e di onorare l’eredità che sto ancora imparando a portare.

Rita Mawuena Benissan, HAMRIYAH. Photo courtesy of Sharjah Art Foundation

Nella personale One Must Be Seated presso lo Zeitz MOCAA si evincono opere ispirate alla tradizione Asante. Puoi parlarcene?

Allo Zeitz MOCAA, la mia mostra personale One Must Be Seated è incentrata sul processo di enstoolment, il tradizionale rito ghanese attraverso il quale un leader viene scelto e insediato. L’installazione reimmagina questa cerimonia sacra attraverso una serie di ombrelli ricamati, forme scultoree, fotografie e opere tessili che guidano lo spettatore attraverso le tappe simboliche del diventare capo. La mostra pone una domanda centrale: ‘Siete pronti a rispondere alla chiamata a questa nuova posizione nella vita?’ Sfida gli spettatori a considerare le responsabilità della leadership, dell’eredità e della trasformazione di sé. Il cuore dell’opera è anche un tributo al potere delle donne, che giocano un ruolo cruciale ma spesso trascurato nel processo di consolidamento: come kingmaker, sono loro che identificano, scelgono e legittimano il prossimo leader. Centrando questa narrazione, la mostra onora la saggezza, l’autorità e il fondamento spirituale delle donne e le basi spirituali che apportano alle tradizioni di leadership in Ghana.

Installation view One Must Be Seated. Photo by Dillon Marsh. Courtesy of Zeitz MOCAA

Nel mio lavoro, cerco di reimmaginare questo oggetto, perché l’ombrello reale viene ancora usato oggi. Lo vediamo nelle mani di tanti capi, re e regine madri. Ma credo che, per il ghanese medio, il vero significato dell’ombrello sia ormai dimenticato. Pensano che serva solo a proteggere il re o la persona reale dal sole, ma in realtà l’ombrello rappresenta la gerarchia, il potere che quella persona ha rispetto a un’altra altrettanto potente. Durante un festival, un evento o un funerale, potresti vedere cento re, capi o regine madri, ma capisci chi ha più potere in base a quanti ombrelli ha o a che tipo di ombrello usa.

Installation view One Must Be Seated. Photo by Dillon Marsh. Courtesy of Zeitz MOCAA

La storia che voglio raccontare attraverso questa tradizione è una storia di potere, memoria e recupero. All’interno dei simboli, dei rituali e della regalia del nostro capo, in particolare l’ombrello reale e lo sgabello, esistono storie profonde e stratificate su chi siamo, da dove veniamo e come ci relazioniamo con la leadership, l’identità e l’eredità. Questi non sono solo oggetti cerimoniali, ma sono vasi di storia e strumenti di potenziamento. 

Con il mio lavoro, voglio onorare queste tradizioni e reimmaginarle per il presente. Voglio che le persone escano dalla mia mostra sentendosi re o regine per un giorno, non solo in senso estetico, ma anche nel modo in cui si comportano, per come riflettono sul loro lignaggio e per come vedono il loro posto nella più ampia narrazione della cultura e della storia.

Installation view One Must Be Seated. Photo by Dillon Marsh. Courtesy of Zeitz MOCAA

Come realizzi gli ombrelli della tradizione dei costumi Asante e quali materiali usi?

Gli ombrelli sono costruiti in collaborazione con abili artigiani di Kumasi, secondo tecniche tramandate da generazioni. Le strutture sono tradizionalmente realizzate in bambù, scelto per la sua flessibilità, durata e rilevanza culturale. Una volta formata la struttura, viene rivestita con tessuti come il velluto, spesso in tonalità profonde e regali. Poi ricopro la superficie con ricami dettagliati, incorporando fotografie d’archivio, emblemi reali e motivi simbolici; ogni filo contribuisce a creare un archivio visivo della memoria.

I totem attingono al linguaggio simbolico degli emblemi dei clan e dei marcatori ancestrali. Nella tradizione Asante, i totem sono sacri e spesso rappresentano animali o oggetti legati all’anima di una famiglia o di uno sgabello. I miei totem sono realizzati con un mix di legno intagliato e foglia d’oro. Non sono repliche fisse, ma reinterpretazioni destinate a invocare presenza e protezione.

A cosa ti ispiri per il design sui tessuti sugli ombrelli? 

Per i disegni tessili degli ombrelli, mi ispiro a un mix di immagini d’archivio, simbolismo reale e narrazioni ancestrali. O, ad esempio, The Triumphant King Rules (Ɔhene awadi Nkonim No Di Tumi) (2023) reimmagina l’ombrello reale come un’opera tessile monumentale, ricamata con ritratti di capi del passato. L’opera integra fotografie d’archivio nella struttura dell’ombrello stesso, stratificando la memoria storica in una forma scultorea contemporanea che parla di vittoria, continuità ed eredità. 

Un’altra opera, We Give Power to You (2024), utilizza un gesto della mano noto come “segno del potere”: un palmo sollevato e aperto, come motivo centrale. In molti contesti tradizionali, questo gesto simboleggia il trasferimento del potere: dalla comunità al capo, o dal leader al suo popolo. Ricamato nel tessuto, il gesto diventa simbolico e intimo, un’offerta, un comando e un promemoria del rapporto tra autorità e fiducia comunitaria. 

Rita Mawuena Benissan, details. Courtesy of the artist and Gallery 1957

Quali domande pongono gli spettatori quando guardano le tue opere?

Quando le persone si imbattono nel mio lavoro, spesso chiedono immediatamente due cose: ‘Dove prendi queste foto?’ e ‘Perché gli ombrelli?’. C’è sempre questa curiosità, e spesso anche incredulità riguardanti i miei materiali di partenza. Molte delle foto che utilizzo provengono da collezioni istituzionali. Impiego molto tempo per costruire la fiducia e raccogliere storie che non sono mai state documentate formalmente, assemblando una memoria visiva che spesso è stata dimenticata o trascurata.

L’ombrello coglie sempre le persone alla sprovvista. Sono colpite da quanto sia centrale nel mio lavoro e sono ancora più stupite da quanto sono grandi gli ombrelli nella vita reale. Per alcuni, è la prima volta in cui vedono un ombrello reale reinventato in questo modo, diventando quasi monumentali e trasformati in un oggetto d’arte che occupa spazio e attira attenzione. Nella nostra cultura, gli ombrelli simboleggiano autorità ed eredità, ma io li tratto come archivi viventi, monumenti mobili che portano con sé strati di storia, protezione e racconti. 

Un’altra reazione comune avviene quando le persone si avvicinano alle opere. A distanza, molti presumono sia un dipinto, ma dopo capiscono che si tratta di ricami. Quel momento di ricognizione fa sempre scattare qualcosa. Si sorprendono della texture, della profondità, delle ore di lavoro a mano e della fisicità.

A cosa stai lavorando attualmente? Ci sono mostre in programma? 

Attualmente, mi trovo in una fase di residenze e ricerca. Ora, mi trovo a Londra con la Gallery 1957: sto svolgendo una residenza che riguarda profonde ricerche d’archivio in molte collezioni museali. Dopo di che, andrò al Wereldmuseum nei Paesi Bassi per continuare questa ricerca, e cercherò, nello specifico, nei loro possedimenti collegati al Ghana. Sto creando nuove opere come risposta a queste collezioni, esplorando come gli archivi coloniali possono essere reinterpretati attraverso narrazioni ghanesi contemporanee.

Mi sto anche preparando per la mia prima mostra personale a Londra con la Gallery 1957, che penso sia un’importante tappa. Attualmente, a Londra faccio ricerca sull’accesso agli archivi nei musei, come il V&A o il British Museum. La domanda è: come possiamo accedere ai nostri archivi? Come possiamo accedere alla nostra storia e raccontare le nostre narrazioni? Perché stiamo ancora usando narrazioni costruite da istituzioni occidentali, direttori occidentali, curatori e storici, ma nel nostro paese abbiamo pochi storici capaci di raccontare quelle storie — e anche loro devono combinare la propria esperienza personale con fonti occidentali, che spesso sono in contraddizione.

Inoltre, sto approfondendo la produzione di un nuovo grande progetto con il mio team: un’installazione in un atrio al Zeitz MOCAA. Questo è incredibilmente speciale perché sarò la prima artista donna a presentare un’installazione nell’atrio del museo, e solo la quinta artista nella storia del museo a farlo, unendomi al gruppo di icone come El Anatsui, Joël Andrianomearisoa, Nicholas Hlobo, e Abdoulaye Konaté. È un grande onore e uno dei progetti più ambiziosi a cui ho lavorato fino ad ora. L’installazione aprirà quest’estate e non vedo l’ora di condividerla con il mondo.

Rita Mawuena Benissan, details. Photo courtesy of the artist and Gallery 1957

Ci sono particolari temi che vuoi esplorare nelle prossime mostre?

Sì, mi sto concentrando sulla domanda ‘E se?’. E se la storia reale ghanese fosse stata rappresentata sulla stessa imponente scala delle monarchie europee durante l’era coloniale? Come sarebbe se una figura reale ghanese avesse una statua a Londra, come la statua del principe Alberto? 

Penso anche a quante dei primi documenti visivi del Ghana, specialmente quelle del tardo ‘800, fossero in bianco e nero, spesso si trattava solo di disegni o acquaforte fatte da forestieri. Sono interessata a cosa succede quando trasformo queste foto in foto a colori. Come cambia il racconto? Come l’aggiunta di profondità, scala e matericità cambia il modo in cui vediamo noi stessi e la nostra storia?

Rita Mawuena Benissan

Si Hene Fondation Si Hene Instagram


Rita Mawuena Benissan, nata ad Abidjan, Costa d’Avorio nel 1995, è un’artista interdisciplinare ghaniana-americana, in missione per reimmaginare l’ombrello reale, trasformandolo da un semplice oggetto protettivo in un potente simbolo dell’identità ghanese.

Nel 2020, Benissan ha fondato Si Hene, una fondazione dedicata alla conservazione della leadership tradizionale e della cultura ghanese, lasciando un segno significativo nelle narrazioni artistiche e storiche del Ghana. Attraverso la sua fondazione, ha avuto un ruolo fondamentale nella riapertura del Museo Nazionale del Ghana nel 2022 e ha ricoperto il ruolo di Curatore Capo presso l’Institute Museum of Ghana (Noldor Artist Residency) fino al 2022. Inoltre, Benissan è stata la direttrice artistica per la Restitution Conference della Open Society Foundation ad Accra, dimostrando il suo impegno nella conservazione culturale e nella rappresentazione.

La maestria artistica di Benissan ha ottenuto un riconoscimento globale, con esposizioni in prestigiosi spazi come l’Arts + Literature Laboratory nel Wisconsin (2021), la Foundation Contemporary of Art presso l’Afrochella Festival (2021), Dak’Art – Biennale de l’Art Africain Contemporain presso il Museo d’Arte IFAN in Dakar, Senegal (2022), e la mostra collettiva “EFIE: Museum as Home” a Dortmund, Germania, la Mitchell and Innes Gallery a New York (2023), “In the World Not of the World” alla Gallery 1957 di Accra (2023), 1-54 Marrakesh, in Marocco (2024), e ha partecipato a una mostra collettiva alla Biennale di Venezia (2024) chiamata Unapologetic WomXn: The Dream is the Truth.

Gallery 1957

Sharjah Biennial 16: to carry

Zeitz Mocaa Museum